Perché Il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi non dice niente su strage rohingya

Soprusi, popoli che scappano dalle proprie guerre in massa, dando vita ad un esodo. Storie che si ripetono continuamente nei vari angoli del Mondo. Mentre la Comunità internazionale ogni volta sembra, ed è, impotente. Bloccata com’è ogni volta dagli interessi particolaristici dei singoli Stati. L’ultimo esodo di massa si sta consumando in Birmania, per opera dei musulmani locali, i rohingya, che stanno fuggendo in massa dal Bangladesh. Scappano perché la Birmania, a maggioranza buddista, sta distruggendo i loro villaggi, li massacra, stupra le donne e spara sui bambini. Loro, i birmani buddisti, che hanno subito la stessa sorte dai cinesi. Ma la storia si ripete e i cacciati diventano prima o poi a loro volta i cacciatori. Scene già viste ad esempio in Israele, per opera degli Ebrei contro i palestinesi. Loro, che un tempo furono castigati dai nazisti. A prescindere dalle religioni e dalle idee politiche, ad essere sporco è l’essere umano.

Ho già parlato del dramma rohingya in Birmania. E la cosa prima purtroppo non meravigliava perché il Paese era sottoposto ad un regime militare. Ma ora che premier è il premio Nobel Aung San Suu Kyi (della cui vittoria esaltavo in questo post), la cosa mi rattrista molto. Perché Aung San Suu Kyi non fa nulla? E peggio ancora non parla, neanche dinanzi all’Onu. Un motivo c’è, che la discolpa in parte. Vediamo quale.

Il motivo del silenzio di Aung San Suu Kyi su strage rohingya in Birmania

rohingya birmaniaCome riporta l’Internazionale, come se non bastasse, dopo aver vinto la sua battaglia ed essere arrivata a controllare la Birmania, questa donna premio Nobel per la pace, con grande indignazione degli altri Nobel per la pace, ha lasciato che il suo portavoce definisse i rohingya “terroristi” e denunciasse la “disinformazione” che avrebbe colpito l’opinione pubblica dei governi stranieri. Non riusciamo a capire questo atteggiamento, ma per quanto imperdonabile non è del tutto inspiegabile. Gli uomini della vecchia giunta hanno conservato il controllo delle forze armate e dei ministeri che le gestiscono. Non solo Aung San Suu Kyi non ha alcuna autorità sui militari, ma i rohingya sono estremamente impopolari in questo paese pressoché interamente buddista che li considera come un lascito della colonizzazione britannica.

Per i birmani i rohingya dovrebbero tornare in Bangladesh, da dove sarebbero arrivati nel diciannovesimo secolo. Se scegliesse di difenderli, Aung San Suu Kyi potrebbe perdere l’appoggio dell’opinione pubblica birmana, tanto più che dopo decenni di persecuzioni i rohingya più radicali hanno imbracciato le armi e hanno attaccato i soldati.

Aung San Suu Kyi non può sorvolare sulla morte dei soldati birmani senza fare il gioco dei generali. Cammina su un filo sottile in una Birmania che è un mosaico etnico la cui unità è estremamente fragile. Di recente ha fatto sapere che in questa settimana si rivolgerà alla popolazione per “parlare della riconciliazione nazionale e della pace”, ma per il momento l’espulsione dei rohingya continua, a ferro e fuoco.

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