Beirut, la città italiana che rischia la stessa catastrofe

Le tragicamente spettacolari esplosioni che hanno squarciato il relativo silenzio (essendo una metropoli) della capitale libanese Beirut, hanno fatto rapidamente il giro del Mondo. Rievocando altre esplosioni che hanno lasciato il segno nella storia contemporanea. Hiroshima e Nagasaki su tutte.

Chissà se la mano è sempre la stessa. Ossia quella americana. Ma ne dubito, data la politica estera che sta attuando Donald Trump. Molto più circoscritta e chirurgica rispetto ai suoi predecessori (repubblicani e democratici). Probabilmente, più quella israeliana, e comunque stiamo lì. Certo, il Libano è una grossa polveriera ormai da troppo tempo, con una situazione istituzionale fragile (ne ho parlato ampiamente qui).

E comunque, al di là della possibile manina esterna che avrebbe eventualmente scatenato quel pandemonio, non bisogna dimenticare che le 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio causa della seconda incredibile esplosione, erano immagazzinate dal 2014 in un hangar dell’hub portuale. Vicino a quartieri densamente popolati.

Quindi, occorrerà anche fare luce sulla gestione discutibile (giusto per usare un eufemismo) del porto. In mano a mafie locali, incompetenti e in balia di scarse risorse.

Tuttavia, anche l’Italia rischia qualcosa del genere. Una città su tutte.

Anche Genova rischia un disastro come quello di Beirut

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A lanciare l’allarme è il sito Contropiano. Il porto di Genova viene da troppi anni di cattiva e pericolosa gestione. Già sempre lui, il capoluogo ligure. Già vittima negli ultimi anni di allagamenti e crolli infrastrutturali.

Poco più di un anno fa, tra i portuali genovesi (appartenenti al Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) e qualche intellettuale che ancora esce dal proprio salotto, è partita una mobilitazione contro il carico-scarico ed il transito di armi nel porto di Genova. Sebbene già ci fossero state “solitarie” denunce di tipo politico mai però riportate, come al solito, dai media mainstream riguardo il traffico di armi che si terrebbe nel porto di Genova.

Questa iniziativa è riuscita per due volte – il 20 maggio e poi un mese dopo il 20 giugno del 2019 – a bloccare il carico di merci militari per la compagnia nazionale saudita Bahri. Gestita dall’agenzia marittima Delta, destinate al conflitto yemenita.

La mobilitazione, oltre al porto di Genova, ha coinvolto anche 2 porti della vicina Francia: Le Havre e Marsiglia.

Questa compagnia di navigazione, la Bahri, tocca il porto ligure ogni 15-20 giorni – tra l’altro anche durante il “lockdown” – e trasporta armi ed esplosivi. Seguendo un percorso molto lungo: che parte dagli Stati Uniti ed arriva fino in Medio Oriente, attraversando il vecchio continente.

L’opera di sensibilizzazione e le mobilitazioni sono continuate dopo l’estate scorsa. Aprendo gli occhi anche su altri fenomeni, come il traffico d’armi e la sua logistica, il conflitto “dimenticato” dello Yemen (del quale mi sono occupato qui) e l’industria delle armi in generale. Un settore che non conosce crisi.

Ha portato anche alla nascita di un “osservatorio delle armi in porto” ed un sito d’inchiesta dedicato: www.weaponwatch.net.

Un fermento proseguito anche nell’autunno successivo, tanto da portare alla cancellazione di un evento della NATO che si sarebbe dovuto svolgere a Genova. Nonché il sequestro di una nave sospettata di violare l’embargo di armi alla Libia. Ciò dimostra che la protesta, quella costruttiva e continuata, può portare importanti risultati.

L’osservatorio ha peraltro posto sotto i riflettori il fatto che sovente il trasporto di esplosivi avvenga a ridosso dei centri densamente abitati (anche a meno di un km). Con numerose direttrici di traffico principali congestionate da tir.

A questo passeggio pericoloso di materiale esplosivo, si aggiunge il fatto che il porto di Genova è da tempo un “Far West”. Dove grandi gruppi multinazionali cercano di fare il bello ed il cattivo tempo. Ricordando peraltro che il porto di Genova sia stato il primo ad essere privatizzato nel nostro Paese. Il tutto con l’avallo dei sindacati.

Ciò che succede dentro i varchi portuali, tra le banchine ed i magazzini, deve rimanere “oscuro”. Mentre filo spinato e blocchi di cemento delimitano lo “spezzatino” delle concessioni portali tra le varie banchine e aree limitrofe, sorvegliate costantemente da telecamere e guardie private, secondo una logica di “controllo totale” mutuata della istituzioni carcerarie, ed una forza lavoro sempre più precaria.

Un apparente paradosso, quello di un porto sempre più “controllato” ma dove nessuno sa cosa transiti al suo interno e senza nessuna ricaduta sulla sicurezza effettiva dei lavoratori. E che quando serve viene “militarizzato” per proteggere terminalisti e agenzie marittime.

Ovviamente, quello di Genova è probabilmente il porto più a rischio. Ma non è il solo. In Italia, tra l’altro, nessuno paga per i disastri che accadono. Anzi, i responsabili continuano a fare la loro bella carriera, con tanto di promozioni e stramiliardarie liquidazioni.

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