Tutte le strade portano ai Benetton: ecco l’impero oltre l’autostrada italiana

Quanti di noi, prima della tragedia di Genova, sapevamo che la famiglia Benetton gestisse pure le autostrade italiane. Sicuramente in pochi. In fondo, il marchio Benetton rievoca lo storico marchio d’abbigliamento azienda tessile italiana fondata nel 1965 da Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo Benetton. Nonché il mitico slogan “United colors of Benetton” che per anni ha campeggiato lungo le strade delle nostre città. Ispirando sovente anche messaggi di fratellanza e anti-razziali.

I numeri del marchio Benetton sono di tutto rispetto: si legge su Wikipedia che l’azienda ha una produzione totale di oltre 150 milioni di capi l’anno. La rete commerciale di 6.000 negozi nel mondo, nel 2013 ha generato un fatturato totale di oltre 1,6 miliardi di euro. La politica del gruppo Benetton si basa su prezzi relativamente bassi, per generare profitti su grossi volumi di vendita. Insomma, Benetton, un nome, una garanzia. Anche se io, personalmente, non ho mai acquistato un loro capo.

Ma i Benetton gestiscono, mediante la controllata al 100% Atlantia, anche le autostrade italiane. L’ultima concessione è stata rinnovata nel 2007 e varrà fino al 2040. In pieno stile italiano dunque: concessioni lunghissime, controlli molto bassi.

Il governo gialloverde in carica vuole però recedere il contratto sottoscritto tra Stato e Benetton per la gestione di autostrade. Il che ci costerebbe una penale di 20 miliardi. In realtà, però, quello dei Benetton è un autentico impero stradale che non si ferma di certo ad autostrade per l’Italia. La società a sua volta controllata da Atlantia. Vediamo dunque quali altre strade controllano i Benetton.

Non solo autostrade, ecco l’impero dei Benetton

benetton autostrade

Anzi, riporta Il Giornale che le autostrade italiane altro non sono che piccole ramificazioni rispetto a un impero che, dopo l’acquisizione da parte di Atlantia della maggioranza di Abertis – concessionario spagnolo che gestisce 8.600 chilometri di autostrade in 15 Paesi – va appunto dalla Spagna all’Asia. Piccole ramificazioni che però comprendono strade a pedaggio, richiedono manutenzione, investimenti, sicurezza. E che nel 2017, grazie alle tariffe, hanno pur sempre fruttato ricavi operativi per 284 milioni di euro.

Difficile che il governo possa trovare una strada giuridica che porti alla decadenza, oltre che dei duemila chilometri in capo ad Autostrade, anche delle altre concessioni gestite da partecipate di cui detiene la maggioranza.

La concessione a scadenza più lunga arriva fino al 2050 e, stando al bilancio 2017 di Autostrade, è anche la più redditizia. Si tratta della società per il Traforo del Monte Bianco, di cui Aspi ha il 51,9% e il resto è suddiviso, tra gli altri, anche tra Anas e Regione Valle D’Aosta: gestisce appena sei chilometri di tunnel transalpino ma ha visto crescere i ricavi da pedaggio da 57 a 61 milioni tra il 2016 e il 2017, grazie all’incremento del traffico pesante (+8,2%), e ha staccato dividendi per 14 milioni. La società detiene poi il 47,9% per cento del Raccordo Autostradale Valle D’Aosta: una rete di 32 chilometri la cui concessione scade nel 2032 e che l’anno scorso ha portato in cassa 20 milioni con il pagamento delle tariffe, aumentate di oltre il 50 per cento nel 2018.

Nella rete di Aspi ci sono poi la Tangenziale di Napoli, che con i suoi 20 chilometri ha consentito un ricavo da pedaggi da 70 milioni, la società Autostrada Tirrenica, 55 chilometri, una concessione in scadenza nel 2038 e ricavi da pedaggi pari a 38 milioni di euro, due in più rispetto al 2016. E c’è infine Autostrade Meridionali, che con i suoi 52 chilometri gestiti fa caso a sé. Infatti, sebbene la concessione sia scaduta nel 2012 e sia già stata bandita relativa gara dal ministero delle Infrastrutture, continua di fatto a restare in mano ad Autostrade che ne detiene il 58,9 per cento in regime di proroga, in attesa che si risolva il contenzioso sulla scelta del successore della gara in Consiglio di Stato.

Nel frattempo però continua a fruttare: i ricavi netti da pedaggio ammontano a 84 milioni di euro, in aumento di 2 milioni grazie al boom di traffico e tariffe. Oggetto, quest’anno, di un rincaro del 5 per cento.

Perchè non credo alla statalizzazione delle autostrade italiane

viadotto Morandi Genova foto

Ora si invoca la statalizzazione della gestione delle autostrade italiane. Del resto, la statalizzazione viene rievocata ogni qualvolta un impero economico o infrastrutturale italiano va in malore. La si invocò per FIAT prima dell’arrivo di Marchionne, la si invoca per Alitalia, meritevole di fallimento da decenni. Ed ora la si invoca per le autostrade italiane. In realtà, accade anche l’opposto. Quando fallisce lo Stato, si invocano i privati.

Personalmente, da buon liberaldemocratico, ho sempre creduto nell’economia mista. Che è poi è quella che abbiamo in Italia da decenni, seppur con mille pecche. Ovvero, dato che lo Stato da solo per vari motivi (abusi o problemi oggettivi) non può gestire tutto, allora è giusto che lo conceda ai privati in un periodo medio-breve. Mediante trasparenti gare d’appalto. E controllando che chi le vince rispetti le regole e faccia ciò che deve fare. I contratti, dunque, non devono avere durate eterne (come avviene ad esempio anche per le spiagge), inoltre lo Stato deve garantire i servizi essenziali a chi non può permetterseli.

So bene che tutto ciò si può realizzare solo a Topolinia. Ma un sistema quanto più vicino alla perfezione aiuta sicuramente. Qualche scandalo, disservizio e abuso qua e là deve essere l’eccezione e non la regola. Problemi sistemici, controllabili e superabili. Ci riusciremo mai? Chissà. Ma ritengo che la statalizzazione sia una utopia. Ben presto ci ritroveremo con boom di assunzioni, assenteismi, sciatterie. I crolli potrebbero moltiplicare. Basta vedere cosa accade a musei,scuole o ospedali.

Benetton e lo sfruttamento celato dai media progressisti

Come riporta Marcello Veneziani, dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali, come le comunità mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia. Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse.

A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.

Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de la Repubblica-L’Espesso-La Stampa, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto.

Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.

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