Recensione Desert Yacht Club, nuovo album dei Negrita

Ecco la recensione di Desert Yacht Club, il nuovo album dei Negrita. A tre anni da Nove, che non mi è piaciuto affatto, e ad un anno dalla celebrazione dei vent’anni di XXX, i Negrita tornano con un nuovo disco: Desert Yacht Club. Il nome non è casuale. I Negrita in questi anni hanno vissuto una crisi, come comprensibile che sia quando si è insieme dagli anni ‘80 (quando Pau e soci si chiamavano gli Inu-dibili). E passato più di un quarto di secolo dal primo disco, Cambio, e messi da parte i bonghetti e le sonorità latinoamericane degli “anni zero”, che hanno spiazzato qualcuno e entusiasmato qualcun’altro (come me), e sonorità più elettroniche che elettriche, la band aretina ha deciso di fare i conti con se stessa recandosi in un deserto.

Ovvero, l’omonima oasi creativa fondata da Alessandro Giuliano nel deserto di Joshua Tree in California. Già, di nuovo la California, dove fu concepito il succitato XXX. Un modo anche per voler tornare alle origini. Per guardare al futuro, ricordando il proprio passato. In effetti, Desert Yacht Club è un po’ un ritorno alle origini. Si respira quella rabbia e quella voglia di spaccare degli anni ‘90, che negli anni 2000 aveva lasciato spazio alla denuncia (in L’uomo sogna di volare e Helldorado si sottolineavano le disuguaglianze sociali) mentre in Dannato vivere si legge tra le righe una indignazione che tocca la rassegnazione. Nove invece non mi espresso granché, a parte il pezzo 1989. Una carrellata di ricordi giovanili, per un amore che è ancora deciso a rinnovarsi.

E Desert Yacht Club com’è? Come dicevo, è frutto di una voglia dei Negrita di tornare a ciò che erano. Come dicono in una loro canzone: “ma adesso shock! Al rientro da uno spot…”. Desert yacht club può essere considerato come un nuovo inizio per i Negrita. Come hanno loro stessi dichiarato:

Il metodo di lavoro è stato totalmente diverso rispetto al passato, e siccome è il disco è nato “on the road” in questa trasferta nel sud ovest degli Stati Uniti, abbiamo scelto per motivi logistici un’attrezzatura minimalista, con un paio di chitarre prese in affitto a Los Angeles e un computer, con cui creare loop ed effetti.”

Nel loro decimo album ci troviamo i sono presenti vigori roots e country, funky, reggae, ma anche noise e quel piglio di elettronica che fa parte dei Negrita ormai da tempo.

Ecco la mia recensione di Desert Yacht Club.

Recensione Desert Yacht Club dei Negrita

Desert Yacht Club copertina

Ecco la recensione di Desert Yacht Club: L’album consta di 11 brani e si apre con Siamo ancora qua, che sembra già volerci dove l’album andrà a parare. Titolo a parte. Ovvero, voglio ancora concedersi il piacere di tornare in pista. Significativa la frase “la musica è cambiata e rispondiamo all’assalto”. Si udono spunti che ricordano i Negrita “classici” abbinati ad inserti elettronici, ormai nel DNA dei Negrita. E dei tempi musicali contemporanei. Ma forse quello inserito proprio nel bel mezzo del brano porta il pezzo fuori dal mood, andandone a sciupare le buone potenzialità.

No problem ricorda L’uomo sogna di volare, sebbene si mostri più ritmato e speranzoso. Il testo sembra voler ribadire il concetto, ancora una volta dopo il pezzo d’apertura, sul nuovo corso musicale intrapreso dalla band. A chiudere il trio d’apertura è Scritto sulla pelle, che si apre con il classico riff di chitarra firmato Drigo ed ha il ritornello rafforzato da una chitarra funkettona. Si parla delle esperienze che facciamo nella vita, che raccontano di noi e ritroviamo tutte scritte sulla nostra pelle, siano esse tatuaggi, cicatrici o semplicemente lividi. Il brano però finisce per avvitarsi su se stesso, rivelandosi presto ripetitivo.

Non torneranno più è probabilmente il miglior brano dell’album. Si apre acustico tra folk e country, con un testo che lascia spazio alla nostalgia, ma solo per un giorno. Si ricorda nostalgicamente di Roby Baggio la naja e Kurt Cobain. La consapevolezza degli anni che passano è un altro connotato dei Negrita, sentito già in 1989. Non a caso, come detto, più bel brano del precedente Nove.

Il quinto brano prosegue sulla falsariga introspettiva e nostalgica: Voglio stare bene. L’intro è blueseggiante, ma il resto riprende i ritmi reggae e parla della ricerca di stare bene in un modo difficile. L’ultimo verso è dedicato alla figlia di Pau.

Sesto brano è La rivoluzione è avere 20 anni, mid tempo che riprende il tema della nostalgia che si prova a 50 anni, quando si guarda alle nuove generazioni ricordandosi cosa si era a quella età. Si riprendono le parole di Ghandi: “be the change you wanna see in the world”), con un occhio alle contraddizioni dei moderni social, che ci fanno sentire connessi con tutti anche quando in realtà siamo soli. Quello che sappiamo tutti, sebbene continuiamo ad usarli. Negrita compresi.

Continuando questa recensione su Desert Yacht Club arriviamo al settimo brano, Milano stanotte, è un altro mid tempo dalle sonorità fresche che ricorda L’agonia del fine settimana. I Negrita parlano di nuovo di notte e divertimento, ma in quel di Milano. Che non è più da bere, ma che potrebbe comunque affogarti.

L’ottavo brano Ho scelto te ricorda gli intenti e il sound di Brucerò per te. Anche se quest’ultima preservava ancora una venatura rock ed era molto più struggente. Mentre questo brano ha anche un respiro sociale più che indirizzato ad una coppia. Il mondo viene definito un “barracuda”, tra terroristi, arrivisti, Gesù Cristo e Giuda, e allora si certa di gettare lo sguardo e il cuore più in là oltre i rettangoli di una provincia che ai Negrita, dai tempi di Hollywood, sta ancora troppo stretta.

Adios paranoia ha un arrangiamento diverso da quello che era stato presentato con la pubblicazione del singolo qualche mese fa. Spogliata di tanta elettronica che la vestiva in precedenza (e che aveva fatto storcere il naso a diversi fan), rispolvera l’anima latina che ancora appartiene alla band aretina. Primo singolo di Desert Yacht Club, con il video ambientato proprio in un deserto. Ribadisce la volontà dei Negrita di seppellire sotto la sabbia una paranoia che rischiava di mandare in frantumi una delle band italiane più interessanti dell’ultimo trentennio.

Nel decimo brano, Talkin’ to you, troviamo l’unico featuring dell’intero album. Ossia con Ensi. Tutto il brano è un curioso mix tra hip hop e funky, on un bell’assolo finale di Drigo. Un ausilio rap già sentito in Salem con Gabriel O Pensador. Anche questo è un brano di protesta.

Aspettando l’alba è cantato interamente da Drigo. Musica quasi totalmente elettronica, con un effetto che rende anche il suono della chitarra simile a quello di un sintetizzatore e un’atmosfera generale che in fondo spiazza. Il testo parla di un addio e dall’attesa di un’alba che però sembra non arrivare mai. Il brano rispecchia quindi la crisi personale che ha colpito Drigo qualche anno fa e che ora è fortunatamente alle spalle.

Recensione Desert Yacht Club, considerazioni finali

negrita

Insomma, questi sono i nuovi Negrita. Prevalentemente dai sound elettronici, con quella malinconia tipica della mezza età e quella voglia di raccontare il mondo, più che cambiarlo. Di stesso, tipica di chi ha ormai 50 anni. Ma in fondo, i Negrita in questo si mostrano autentici: che senso ha voler fare i ribelli e gli incasinati arrivati ad una certa età e con una famiglia sulle spalle? E ciò si denota anche nel sound di questi anni, a partire da Dannato vivere: le strombazzanti chitarre elettriche degli anni ‘90 hanno da tempo lasciato il posto a sonorità soprattutto elettroniche, funky e reggae. Nel mezzo, i sound latinoamericani che quanto meno avevano portato ad un apprezzabile, e non da tutti, voglia di fare altro. Di rischiare, uscendo dai cliché che le esigenze discografiche vogliono attaccarti.

Da fan dei Negrita, faccio per loro lo stesso discorso fatto per altri artisti che seguo dall’adolescenza. E’ inutile star lì a dire “non sono più quelli di una volta” e menate varie. Cambia il nostro orecchio, la nostra predisposizione all’ascolto, e cambiano loro. Il loro modo di scrivere testi e arrangiare i brani. Il tempo passa per tutti, ci matura, ci fa invecchiare, ci fa cambiare prospettiva, modo di porci e raccontare le cose.

Nei Negrita scorgo ancora una certa autenticità e sincerità. E in questo mondo già mi va bene. Fin quando non li vedrò a The Voice o a X Factor. Avendogli già perdonato la partecipazione a Sanremo.

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