La frittura fa male? No, anzi: i benefici per l’organismo

La frittura è un modo di cucinare che piace a tanti. Sarà perché iniziamo da bambini, con le mitiche patatine che piacciono tanto ai più piccoli. Tanto che nei ristoranti, cotoletta e patatine è un ottimo escamotage per farli mangiare.

Ci hanno però sempre detto che la frittura faccia male. E di preferirla ad altre modalità di cottura, come il forno o il vapore. Se non addirittura il mangiare crudo. In quanto gli alimenti preserverebbero le proprie sostanze salutari.

Tuttavia, una nuova ricerca ci dice il contrario, ovvero che la frittura faccia addirittura bene all’organismo. Vediamo cosa [sta_anchor id=”frittura”]dice[/sta_anchor].

La frittura non farebbe male secondo ricerca spagnola

Come riporta Libero, la professoressa Cristina Samaniego Sanchez della facoltà di farmacia di Granada, nel compiacersi della ricerca in oggetto da lei capitanata, ha invitato a dissimulare la paura del grasso associato al consumo di fritture. Soprattutto alla luce del fatto che, in un soggetto normopeso, qualche etto in più non è da considerarsi un eccessivo investimento se equiparato al proporzionale incremento dei propri antiossidanti.

Alimento protagonista dell’ indagine è stata la verdura, la quale, secondo i risultati conseguiti, manterrebbe al meglio le sue proprietà se saltata in padella. La cottura in acqua, al contrario, favorirebbe la dispersione degli antiossidanti comunemente presenti in ortaggi quali patate, melanzane e pomodori.

«La frittura», ha affermato la Sanchez, produce i maggiori aumenti associati alla frazione fenolica, il che significa un miglioramento del processo di cottura. Nel corso degli anni è stata demonizzata, ma adesso non è ora di riabilitarla».

Quando la frittura fa male

frittura fa male

Largo quindi alla frittura, ricordando però che il suo consumo ottimale prevede il rispetto di alcune imprescindibili regole. Prima fra tutte è la scelta dell’ olio: orientarsi sempre verso l’ extravergine d’ oliva; il motivo è semplice: esso ha il punto di fumo più alto, ciò significa che, a parità di tempo sul fuoco, sviluppa l’ acroleina (sostanza tossica per il fegato) ben più tardi degli altri oli.

Tra gli accorgimenti da non trascurare vi è pure la riduzione dei tempi di cottura, i quali non andrebbero assoggettati all’ istinto del cuoco di bruciacchiare l’ alimento per renderlo più appetibile: dorato è buono, annerito lo è molto di meno.

La temperatura dell’ extravergine va mantenuta attorno ai 180°C, allo scopo potrebbe tornare utile un termometro da cucina, il cui impiego non farebbe dello chef un “Furio” di verdoniana memoria ai fornelli, bensì un garante della salute sua e di quella dei commensali. Altra abitudine da perdere è il riciclo ostinato dello stesso olio a scopo di risparmio, usanza alla quale si aggiunge spesso quella non meno discutibile di addizionare nuovo olio a quello già alterato.

Ma non si dovrebbe lesinare neppure sulle padelle: optare per quelle antiaderenti ed in acciaio è un investimento per il quale, il nostro fegato, ci ringrazierà.

Quanto al resto, mettete a tacere i fanatici del cibo da refettorio ricordandogli di come, anche le pietanze a loro care, possono sviluppare la paventata acrilamide: la formazione di quest’ ultima, come approfondito in un rapporto dell’ autorità europea per la sicurezza alimentare, non sarebbe favorita dalla sola frittura, ma anche da altri metodi di cottura gettonati pure tra i maniaci del salutismo, come la cottura al forno.

Fritto, carte in mano, oltre ad essere buono è anche sano, purché non se ne abusi. E con attenta scelta dell’olio.

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