Il grande Leopardi aveva già intuito come sarebbe diventata Roma: come la descriveva due secoli fa

VI GIUNSE IL 23 novembre 1822, ospite dello zio materno Carlo Antici, nel palazzo Antici-Mattei che si trova nell’attuale via Michelangelo Caetani. NE RIMASE PROFONDAMENTE DELUSO
La profonda corruzione scoperchiata con Mafia Capitale, la sporcizia, i mezzi di trasporto inefficienti, l’insicurezza, le strade lastricate di buche, i Vigili urbani assenti, il cinismo e l’ipocrisia dominanti, gli sprechi per i lavori pubblici, sono i tanti colori tristi e vergognosi che dipingono la Roma di oggi. Una situazione la cui gravità si amplifica considerato che è la Capitale, che in fondo si presta come giusto specchio di un Paese allo sfascio. Il centrodestra (oltre al Movimento cinque stelle e parte dello stesso Pd) vuole la testa del Sindaco Ignazio Marino, dimenticando però che con Alemanno le cose non sono andate molto meglio. Certo, il centrosinistra ha governato per molti anni, con le precedenti esperienze di Rutelli e Veltroni. Dunque di colpe ne ha non poche. E a leggere il modo col quale il grande Poeta Giacomo Leopardi descriveva la città quando ne fu in visita per cinque mesi quasi due secoli fa, sembra che avesse previsto come la città si sarebbe ridotta oggi.

COSA SCRIVEVA DI ROMA – Ansioso di lasciare Recanati, il suo ‘natio borgo selvaggio’ mai amato, il 17 novembre 1822 finalmente parte per Roma, dove arriva il 23, ospite dello zio materno Carlo Antici, nel palazzo Antici-Mattei che si trova nell’attuale via Michelangelo Caetani. Il viaggio lo fa ospite di una delle due carrozze con le quali lo zio, dopo aver trascorso l’estate a Recanati, ritorna a Roma. Monaldo finalmente si era arreso alle ragioni di Giacomo e della famiglia Antici. Il viaggio dura sei giorni attraverso uno dei paesaggi più belli d’Italia: ma di nulla abbiamo testimonianza, perché tutto gli era ugualmente indifferente; solo un piccolo incidente accaduto a Spoleto, nella locanda dove trascorse la prima notte fuori di Recanati.
A Roma, comunque, si trova subito male, non solo perché la vastità del nuovo mondo, incomparabile con quello della piccola Recanati, fa perdere il senso della misura
“Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de’ gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini”
e gli fa capire di essere un niente sconosciuto, ma soprattutto perché ciò che aveva immaginato della città, della vita in casa Antici, della cultura è lontano mille miglia dalla realtà che vede coi suoi occhi. Questo è ad esempio il ritratto di Francesco Cancellieri, un erudito romano che era in rapporti con Carlo Antici, lo zio romano presso il quale il poeta era ospite, che aveva avuto il merito di averlo nominato per primo nell’operetta Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran memoria e verso il quale Leopardi aveva provato sentimenti di gratitudine nel 1815:
Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l’altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l’esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo.
Il ritratto del Cancellieri, col quale, così anche con Angelo Mai, fu impossibile andare al di là di rapporti di semplice cortesia, è in fin dei conti il ritratto dei “tanti” uomini di cultura che si aggirano per Roma, gente oziosa che vive «d’intrigo, d’impostura e d’inganno», colla quale però non si confonde la ristretta cerchia di studiosi stranieri, che privilegia soprattutto il salotto dell’ambasciatore olandese Reinhold, dove il poeta conosce Niebuhr, Bunsen, Jacopssen.
Arrivando a Roma aveva creduto di entrare nel giro dei grandi eruditi, come Cancellieri e Angelo Mai o dei grandi artisti come Canova; ma l’accoglienza è dappertutto di maniera, fatta di apparenze e sostanzialmente di indifferenza. Tra una frustrazione e l’altra, nella difficoltà di stringere qualche amicizia con le donne “difficili da fermare in Roma come in Recanati, anzi molto più, a causa dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza”, comincia a vacillare anche la speranza che lo aveva sempre sostenuto:
“Fuori del ristretto cerchio della città natale, doveva, secondo lui, esserci indubbiamente una donna più sensibile, più spirituale, più gentile, capace di dimenticare i difetti del corpo nella tenerezza del cuore, una donna che malgrado tutto, avrebbe il coraggio di amarlo” (Origo, cit., p. 208).
IL RITORNO DELUSO A RECANATI– La consapevolezza della sua deformità comincia a fargli vivere la sua vita come una lunga malattia, portandolo a una solitudine sdegnosa e malinconica molto simile a quella che viveva a Recanati, ma più grave perché un’altra delle illusioni giovanili, quella di un ambiente vivibile diverso da Recanati, era ormai andata in frantumi, tanto da fargli scrivere nello Zibaldone qualche anno dopo:
Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna. Io era allora incapace di conciliar l’una vita coll’altra; tanto incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch’io provava allora, e che i più non l’avessero mai conosciuta. La sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo. Ma quello stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch’io, divenuto così inetto all’interno come all’esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita. (1. Dic. 1828.).
Deluso dall’ambiente e visto vano il tentativo di ottenere un impiego nell’amministrazione pontificia (si parlò di incarichi di vario genere fra cui quello di bibliotecario), il 28 aprile 1823, come aveva anticipato al padre in una lettera del 22, parte da Roma per far ritorno a Recanati, dove giunge il 3 maggio.

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Pubblicato da Vito Andolini

Appassionato di geopolitica e politica nazionale.

Una risposta a “Il grande Leopardi aveva già intuito come sarebbe diventata Roma: come la descriveva due secoli fa”

  1. Qui tra mafiosi e corrotti in parlamento e alla camera non si sa più chi votare, io rimango a Sinistra cmq anche se la politica italiana sta facendo spostare sempre più cittadini italiani a destra e non sempre hanno torto.

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