INDRO MONTANELLI, SETTANT’ANNI IN PRIMA LINEA

DIECI ANNI FA SCOMPARIVA IL PIU’ GRANDE CRONISTA ITALIANO, CHE MOLTI RICORDANO SOLO PER IL SUO CONFLITTO CON BERLUSCONI

Ieri sono trascorsi dieci anni dalla sua morte. Con lui non finì solo un giornalista, ma anche un secolo del nostro Paese, che egli ha raccontato magistralmente da grande cronista qual’era. Settant’anni di giornalismo autentico in prima linea, senza compromessi. Peccato soltanto che di lui si tenda a ricordare soprattutto l’ultima fase della sua carriera, quella caratterizzata dallo scontro con Berlusconi. D’altronde, la storia contemporanea del nostro Paese ruota tutta intorno al Cavaliere.
Parlo di Indro Montanelli, nato a Fucecchio (in provincia di Firenze) oltre un secolo fa (22 aprile 1909) e morto a Milano appunto dieci anni fa (22 luglio 2001). Ripercorriamo la storia di un grande giornalista italiano, per molti, il più grande di tutti. Perché Montanelli non è stato solo “colui che fe’ il gran rifiuto” al Cavaliere. Ma è stato soprattutto colui che ha raccontato e commentato quasi settant’anni del nostro Paese.


LE ORIGINI E GLI ESORDI COME CORRISPONDENTE DI GUERRA – Figlio di Sestilio Montanelli e di Maddalena Doddoli, Indro nacque come detto a Fucecchio (FI) in Toscana nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. Le sue origini sono dunque benestanti.
Dopo essersi laureato in Giurisprudenza a Firenze e dopo aver frequentato uno stage al Grenable, Montanelli debuttò sulla rivista Frontespizio di Piero Bargellini, con un articolo su Byron e il cattolicesimo (luglio-agosto 1930). Nel 1932 collaborò al periodico fiorentino l’Universale di Berto Ricci, con una diffusione di circa millecinquecento copie.
Esordì come giornalista di cronaca nera nel 1934 a Parigi, al Paris-Soir, collaborando contemporaneamente al quotidiano italo-francese diretto da Italo Sulliotti L’Italie Nouvelle. Fu poi mandato come corrispondente in Norvegia, da lì in Canada e poi assunto alla United Press a New York, continuando anche nella collaborazione con Paris-Soir. In questo periodo intervistò il magnate Henry Ford, che descrisse in maniera molto originale. Nel 1935 il regime fascista attaccò l’Etiopia. Montanelli tornò in Italia e si propose come inviato in Etiopia, ma l’agenzia non acconsentì, così si arruolò volontario. Partecipò alla guerra (iniziata nell’ottobre 1935) come comandante di un battaglione di Ascari (XX Battaglione Eritreo). La guerra di Montanelli durò solo fino a dicembre: venne ferito e dovette abbandonare i combattimenti. Durante la sua permanenza al fronte aveva iniziato a scrivere un libro, che diede alle stampe all’inizio del 1936. L’opera, XX Battaglione Eritreo, in maggio fu recensita favorevolmente da Ugo Ojetti e Goffredo Bellonci.
Nel gennaio 1936 fu trasferito dal XX Battaglione Eritreo al Drappello Servizi Presidiari e iniziò a prestare servizio presso l’Ufficio Stampa e Propaganda. Qui sposò un’eritrea di 12 anni, versando al padre la convenuta cifra di 500 lire, secondo i costumi locali. Questa prima moglie lo seguì per l’intera permanenza in Africa.
Tornato in Italia nell’agosto 1936, Montanelli ripartì per la guerra civile spagnola come corrispondente per il quotidiano romano Il Messaggero, scrivendo articoli anche per L’Illustrazione Italiana e il neonato settimanale Omnibus di Longanesi. In Spagna, le sue posizioni iniziarono ad essere critiche del regime. In un resoconto sulla battaglia di Santander diede questa descrizione della resa della guarnigione repubblicana: “È stata una passeggiata militare con un solo nemico: il caldo.”
Una volta rimpatriato, il Minculpop, con l’intervento diretto di Mussolini, lo cancellò dall’albo dei giornalisti per l’articolo sulla battaglia di Santander, considerato offensivo per l’onore delle forze armate. Gli fu anche tolta la tessera del Partito, che poi nulla egli fece per riavere. Per evitare il peggio, Giuseppe Bottai (ministro dell’Educazione nazionale) prima gli trovò in Estonia un lettorato di italiano nell’Università di Tartu, poi lo fece nominare direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Tallinn, la capitale.

L’APPRODO AL CORRIERE DELLA SERA E LE VICENDE COMPLICATE NEGLI ANNI ’40 – Ritornato in Italia, entrò nel 1938 al Corriere della Sera grazie anche all’interessamento di Ugo Ojetti, che credeva nel suo talento giornalistico. Ojetti, ex direttore del Corriere, fece il suo nome ad Aldo Borelli, il direttore in carica, che gli affidò l’incarico di occuparsi di articoli di viaggi e letteratura, e con la consegna di tenersi lontano dai temi politici.
Montanelli fece l’inviato in giro per l’Europa. Nel 1939 fu in Albania, diventata quell’anno colonia italiana. Il 1º settembre 1939, mentre si trovava in Germania, conobbe sul Corridoio di Danzica Adolf Hitler, alla presenza dello scultore Arno Breker e dell’architetto Albert Speer (che confermò poi, nel 1979, la veridicità di quell’incontro). Montanelli stesso ebbe modo di rievocare l’episodio nel libro-intervista autobiografico Il testimone.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Montanelli si spostò al fronte: oltre all’invasione della Polonia, assistette a quella dell’Estonia da parte dei sovietici. In Finlandia fu appassionato testimone del tentativo d’invasione da parte dell’URSS; nei suoi articoli trasparve una forte propensione per la causa finlandese. Dopo il Trattato di Pace di Mosca (12 marzo 1940), si spostò in Norvegia per seguire l’invasione del paese ad opera dei tedeschi. Poi in maggio rientrò in Italia (dal 29 gennaio era stato reintegrato nella redazione del Corriere della Sera con un regolare contratto di assunzione).
Con l’entrata in guerra dell’Italia (giugno 1940), Montanelli venne mandato in Francia e nei Balcani; poi gli fu assegnato l’incarico di seguire la campagna militare italiana dalla Grecia e dall’Albania, come corrispondente. Qui raccontò di aver scritto poco, per malattia ma soprattutto per onestà intellettuale: il regime gli imponeva l’obbligo di propaganda, ma sotto i suoi occhi l’esercito italiano subiva seri danni.
Decise di rimpatriare nel 1942 per sposarsi in seconde nozze con l’austriaca Margarethe De Colins De Tarsienne, che aveva conosciuto nel 1938. Dal 1942 al 1944 scrisse sul settimanale Tempo sotto lo pseudonimo di “Calandrino”.
Nel 1943 visse il disfacimento dell’8 settembre e si associò al movimento partigiano Giustizia e Libertà. Fu inserito nella lista dei ricercati; scoperto dai tedeschi prima che riuscisse ad unirsi effettivamente alle formazioni combattenti, fu incarcerato (5 febbraio 1944) e condannato a morte (20 febbraio 1944). Riuscì ad evitare la sentenza per intercessione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster. Fuggì da San Vittore grazie all’aiuto della famiglia Crespi, proprietaria del Corriere della Sera. Successivamente fu aiutato a fuoriuscire dall’Italia grazie alla rete clandestina «Opera Scout Cattolica Aiuto ai Rifugiati» (OSCAR). Dall’esperienza trascorsa nella prigione di Gallarate e poi in quella di San Vittore trasse ispirazione per il romanzo Il generale Della Rovere.

Il 25 aprile 1945 Montanelli fece il suo ritorno in Italia. Gli inizi non furono facili: gli antifascisti non gli perdonavano il fatto di essere stato fascista; gli ex fascisti non avevano dimenticato il suo «8 settembre». Le porte del Corriere della Sera gli furono inizialmente sbarrate. Montanelli dovette ricominciare dal “settimanale popolare” del Corriere, La Domenica del Corriere di cui assunse la direzione nel 1945. Solo alla fine dell’anno seguente poté tornare in Via Solferino.
Nel 1946, assieme a Giovanni Ansaldo e Henry Furst, aiutò l’amico Leo Longanesi a fondare l’omonima casa editrice, per la quale cominciò a pubblicare fin dal 1949 (Morire in piedi). Scrisse anche un articolo per il primo numero del settimanale Il Borghese (15 marzo 1950). Montanelli, oltre che con Longanesi, strinse un’amicizia profonda con un altro personaggio importante nella cultura italiana dell’epoca, Dino Buzzati. Il terzo intellettuale con cui Montanelli strinse una forte e duratura amicizia fu Giuseppe Prezzolini, che stimava per l’indipendenza di pensiero.

GLI ANNI ’50-’60. LA FAMOSA SPEDIZIONE A BUDAPEST E L’IMPEGNO IN ITALIA – Negli anni cinquanta Montanelli accettò la richiesta di Dino Buzzati di tornare a collaborare con la Domenica del Corriere. Buzzati gli diede una pagina intera; nacque la rubrica «Montanelli pensa così», che divenne poi «La Stanza di Montanelli», uno spazio in cui il giornalista rispondeva ai lettori sui temi più caldi dell’attualità. In breve tempo diventò una delle rubriche più lette d’Italia.

Grazie al successo della rubrica, Montanelli accettò di scrivere a puntate la Storia dei romani e poi la Storia dei greci. Cominciò così la carriera di storico, che fece di Montanelli il più venduto scrittore italiano.
Il primo libro fu la Storia di Roma, che venne pubblicata a puntate su La Domenica del Corriere e poi raccolto in volume per Longanesi (1957). Dal 1959 in poi la fortunata serie venne edita dalla Rizzoli Editore. La serie continuò con la Storia dei greci, per poi riprendere con la Storia d’Italia dal Medioevo ad oggi.
Quando la parlamentare socialista Lina Merlin, nel 1956 propose un disegno di legge che prevedeva l’abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, in particolare attraverso l’abolizione delle case di tolleranza, Montanelli si batté pervicacemente contro quella che veniva già chiamata – e si sarebbe da allora chiamata – la “legge Merlin”. Diede alle stampe un pamphlet intitolato Addio, Wanda!
Nello stesso 1956 la sua attività d’inviato aveva portato Montanelli a Budapest (famosa la foto seduto con la macchina da scrivere), dove fu testimone della rivoluzione ungherese del 1956. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un’opera teatrale, I sogni muoiono all’alba (1960), da lui portata anche al cinema l’anno successivo insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, con Lea Massari e Renzo Montagnani nel ruolo dei giovani protagonisti.
Nel 1968 Montanelli pubblicò sul Corriere una serie di inchieste sulle città che aveva maggiormente nel cuore. I servizi riguardarono, tra le altre, Firenze e Venezia. Il giornalista dedicò ampio spazio alla Serenissima, lanciando l’allarme per la salvaguardia della città. Montanelli rilevò i pericoli che la crescente industrializzazione stava arrecando al delicato ecosistema lagunare. Stabilì un rapporto causa-effetto tra la forte industrializzazione della zona attorno a Porto Marghera e l’inquinamento a Venezia, la città e i suoi monumenti. Infine denunciò il silenzio delle pubbliche autorità, che continuavano ad ignorare i sintomi del degrado della laguna (su tutti l’acqua alta, che proprio in quegli anni iniziava ad essere molto frequente). Impiegò, in quest’opera di impegno civile svincolata da tematiche o colorazioni partitiche, tutta la sua autorevolezza personale. L’anno seguente, il 1969, Montanelli registrò tre reportage televisivi per la Rai, dedicati rispettivamente a Portofino, Firenze e Venezia.

LA ROTTURA DEFINITIVA COL CORRIERE – A partire dalla metà degli anni sessanta, dopo la morte di Mario e Vittorio Crespi e la grave malattia del terzo fratello Aldo, la proprietà del “Corriere” fu gestita dalla figlia di quest’ultimo. Sotto il controllo di Giulia Maria, il quotidiano operò una netta virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972, con il licenziamento in tronco del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone.
Montanelli diede un giudizio tagliente sull’operazione. Il giornalista entrò definitivamente in rotta di collisione con la proprietà in seguito a due interviste rilasciate nell’ottobre 1973. La prima fu pubblicata il 10 ottobre sul settimanale politico-culturale Il Mondo.

LA NASCITA DE IL GIORNALE – Montanelli stava effettivamente lavorando per fondare un nuovo giornale, di cui sarebbe stato il direttore. Sapeva che una quota importante dell’opinione pubblica, pur non manifestando direttamente la propria opinione (era nata pochi anni prima l’espressione “maggioranza silenziosa”) non apprezzava la nuova linea adottata da giornali importanti come La Stampa e lo stesso Corriere, favorevoli al “compromesso storico” tra DC e PCI. Chiamò la nuova creatura Il Giornale Nuovo. Nella sua “traversata nel deserto” dal Corriere al Giornale lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condivisero il nuovo clima interno al Corriere, tra i quali Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Guido Piovene, Cesare Zappulli, ed intellettuali europei come Raymond Aron, Eugène Ionesco, Jean-François Revel e François Fejtő.
Il giorno stesso della sua uscita dal Corriere, Montanelli ricevette un’offerta da Gianni Agnelli, che gli propose di scrivere su La Stampa. L’offerta fu accettata. Indro pubblicò il suo primo pezzo sul quotidiano torinese il 28 ottobre. Montanelli lasciò anche la sua “storica” rubrica sul settimanale Domenica del Corriere per traslocare sul concorrente Oggi. Il 17 marzo 1974 preannunciò sul quotidiano torinese il suo progetto di fondare un nuovo giornale; il suo ultimo articolo su La Stampa comparve il 21 aprile.
All’inizio del 1974 il progetto di fondazione del nuovo quotidiano era definitivo. Trovò un insperato sostegno finanziario nella Montedison (guidata all’epoca da Eugenio Cefis), che gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni. Montanelli ottenne di rimanere il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.

I CONTRASTI CON BERLUSCONI A PARTIRE DALLA SUA DISCESA IN CAMPO – Nel 1977 terminò il finanziamento della Montedison. Montanelli accettò il sostegno di Silvio Berlusconi, all’epoca costruttore edile, che divenne socio di maggioranza nell’ottobre 1979. Secondo Felice Froio, Montanelli, sottoscrivendo il contratto con Berlusconi, gli avrebbe detto: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore […] Io veramente la vocazione del servitore non ce l’ho».
Il loro sodalizio durò senza significativi contrasti fino al 1994. Da un’intervista audiovisiva rilasciata ad Alain Elkann si evince che la loro separazione fu presa di comune accordo. Nell’intervista con Elkann, Montanelli spiega meglio la dinamica della sua uscita dal Giornale. Egli, riferendosi a Berlusconi, afferma: “gli dissi: io non mi sento di seguirti in questa avventura, noi dobbiamo separarci, fu una separazione consensuale tra me e Berlusconi. Il patto su cui si reggeva la nostra convivenza, che era stato scrupolosamente osservato da entrambe le parti (ossia “Berlusconi è il proprietario del Giornale, Montanelli ne è il padrone”), era venuto meno”.
Successivamente egli attaccò duramente Berlusconi, paragonandolo a Mussolini (“ho già conosciuto un uomo della Provvidenza e mi era bastato”), considerandolo incapace di sopravvivere alla politica (“farà la fine del povero Antonio La Trippa: non riuscirà a mantenere le promesse che ha fatto agli italiani e dovrà andarsene”).

GLI ULTIMI FUOCHI – Non ritenendo di poter accettare la direzione del Corriere della Sera (che non avrebbe assunto anche gli altri redattori del Giornale) offertagli da Paolo Mieli e Gianni Agnelli, decise di fondare una nuova testata insieme agli altri quaranta giornalisti dimissionari, La Voce, nome che scelse in omaggio a Giuseppe Prezzolini.
La nuova impresa tuttavia non ebbe vita lunga, non riuscendo ad ottenere nel tempo un sufficiente volume di vendite, nonostante un esordio di 400.000 copie. Come egli stesso ebbe modo di dire, La Voce si proponeva un obiettivo troppo ambizioso: nella sua idea iniziale la nuova testata doveva essere un settimanale, o un mensile, sul modello de Il Mondo di Mario Pannunzio: di conseguenza la progettazione della “terza pagina”, la sezione culturale, risultò particolarmente curata; tuttavia, il numero di giornalisti alle sue dipendenze lo spinsero verso un quotidiano. Tra questi Beppe Severgnini, Marco Travaglio e Peter Gomez.
Dopo la chiusura de La Voce, tornò così a lavorare per il Corriere della Sera, per curare la pagina di colloquio coi lettori, la “Stanza di Montanelli”, posta in chiusura del giornale.
Negli ultimi suoi anni Montanelli si distinse per la posizione profondamente critica assunta nei confronti del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, il suo ex editore, ritenuto antidemocratico, propenso alla menzogna, autore di un progetto politico che, diversamente da come veniva descritto, con la destra non aveva niente a che fare. Intendeva mettere in guardia gli italiani, ricordando la pericolosità di un nuovo “uomo della provvidenza” capace di risolvere tutti i problemi, facendo notare che ne aveva già conosciuto uno in passato (Benito Mussolini) e che gli era bastato.
Fra le sue considerazioni più note, quella fatta poco tempo prima delle elezioni politiche del maggio 2001, quando, ritenendo Berlusconi vicino alla vittoria elettorale, lo paragonò ad una malattia e disse che l’Italia ne sarebbe guarita, similmente all’azione di un vaccino, in seguito al suo esercizio del potere. Purtroppo su questo ebbe torto.

Due mesi dopo, il 22 luglio 2001, si spense a Milano nella clinica La Madonnina. Con lui se ne andò anche un giornalismo coraggioso e indipendente.

(Fonte: Wikipedia)
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Pubblicato da Vito Andolini

Appassionato di geopolitica e politica nazionale.

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