Resteremo a piedi? Il petrolio si sta esaurendo: ecco i dati che ci stanno nascondendo

Fin dai tempi della scuola ci hanno detto, specie in Geografia, che il petrolio è una fonte limitata, che si sarebbe prima o poi esaurita. Alcune statistiche hanno provato pure a stabilire un anno o un decennio. Forse tra il 2030 o il 2040. E non abbiamo ancora provveduto a rimpiazzarlo con una fonte energetica alternativa. Possibilmente naturale e per nulla inquinante. Del resto, la notizia della fine del petrolio potrebbe essere ben vista dagli ambientalisti. Visto che è uno degli agenti più inquinanti del Pianeta. Ma oltre a sperare nella sua fine, dovremmo anche investire nella sua sostituzione.

Ecco dunque i dati sulla fine del petrolio che ci nascondono

Il Petrolio si sta esaurendo

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Come riporta Contropiano, nel 2017 è stato registrato il minimo storico nelle scoperte di risorse convenzionali. Parliamo di petrolio vero e proprio, non di un derivato da lavorazioni come lo shale oil e simili. Sono stati infatti ritrovati “appena 6,7 miliardi di barili, stima Rystad Energy, ossia una media di 555 milioni di barili al mese tra greggio e gas, contro 645 mb al mese nel 2016 – già considerato un anno di magra – e circa 1,3 miliardi, sempre su base mensile, nei tre anni precedenti”.

E’ sempre difficile capire al volo se si tratta comunque di una quantità sufficiente a coprire o meno il fabbisogno, dunque si deve andare a guardare la proporzione tra le quantità ritrovate e quelle consumate (il cosiddetto reserve replacement ratio). Bene. Qui il numero diventa agghiacciante: nel 2017 il tasso di sostituzione ha raggiunto appena l’11% contro più del 50% nel 2012. Per ogni 10 barili consumati ne è stato trovato soltanto uno.

Eppure le scoperte sono state molte. Ma ormai si sta raschiando il fondo del barile (scusate il pasticcio di parole), perché i nuovi giacimenti sono quelli più piccoli, che prima non venivano neanche presi in considerazione.

“In generale la taglia media delle scoperte si è comunque ridotta: nell’offshore è scesa a circa 100 mb, dai 150 mb del 2012. Un problema ulteriore, spiega Passos, perché potrebbe scoraggiare le decisioni di investimento: «Nel nostro scenario base di prezzi, stimiamo che oltre un miliardo di barili scoperti durante il 2017 potrebbero non essere mai sviluppati»”

E’ davvero divertente il modo in cui Sissi Bellomo, giornalista del quotidiano di Confindustria che cura il settore petrolifero, liquida la “paura del picco di produzione”.

Da molto tempo il picco della produzione di petrolio non spaventa più nessuno: oggi semmai si discute di quando la domanda smetterà di crescere. Nessuno però prevede che potremo presto fare a meno degli idrocarburi, nemmeno ipotizzando una diffusione impetuosa di auto elettriche, energie rinnovabili e batterie a supporto della rete. I consumi petroliferi, prima di avviare un graduale declino, si stabilizzeranno. E questo secondo le previsioni più ottimiste non avverrà prima del 2030”.

La scoperta di nuovi giacimenti basterà?

Nonostante il tono tranquillizzante, non sembra si possa dire che la “stabilizzazione” dei consumi, posticipata da qui a 15 anni (nel migliore dei casi), sia un “non problema”. Tant’è vero che le sue stesse fonti la costringono a scrivere:

Nel frattempo, per evitare una drammatica salita del prezzo del barile, sarà indispensabile trovare e sviluppare nuovi giacimenti. Se non altro per compensare il declino di quelli vecchi, che la crisi nel settore – che ha comportato tagli non solo agli investimenti, ma anche ai costi operativi e di manutenzione – sembra aver accelerato: entro il 2019 potremmo perdere fino a 9 milioni di barili di greggio al giorno, ha dichiarato di recente Ben Luckok di Trafigura”.

Il “problemino” accantonato con sufficienza ritorna con la durezza dei fatti (che, come dicono gli inglesi, “hanno la testa dura”):

Naturalmente ci sono anche lo shale oil e altre risorse non convenzionali, su cui l’analisi di Rystad sulle scoperte non si sofferma. Ma il loro contributo non sarà sufficiente, anche se negli Usa i frackers sono tornati a spendere a piene mani, con risultati immediati sulla produzione. Negli Usa – proiettati l’anno prossimo a raggiungere 10 mbg di produzione – all’incirca due barili su tre provengono da aree di shale. Queste forniture tuttavia rappresentano non più del 6-7% dell’offerta globale. Non solo. I pozzi dello shale oil entrano in funzione in tempi brevi, ma si esauriscono anche rapidamente”.

La voce fuori dal coro: avremo Petrolio per altri 130 anni

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Ma non tutti sono così catastrofisti. Come riporta Tuttogreen, ad esempio, per Aldo Vesnaver, ricercatore all’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale di Trieste, sebbene con un passato nella principale compagnia petrolifera mondiale ha detto nel 2014 a La Stampa:

«Saremo tranquilli per un altro secolo, se non di più. Ci sono zone in cui c’è ancora un discreto stock e altre inesplorate: da lì, contando sulle nuove tecnologie, presto si comincerà a estrarre ulteriore petrolio. Già sei anni fa, prima della crisi, si stimavano riserve sufficienti per 130 anni. Ora che i consumi sono calati, i tempi potrebbero aumentare».

Interessante, secondo il professor Vesnaver, è il ruolo dei territori ancora inesplorati, come il deserto del Rub al-Khali, 6mila km di sabbia tra l’Azerbaigian e l’Oman. Oppure il mare di Barents, conteso tra Stati Uniti, Norvegia e Russia.

Anche la nuova tecnica del fracking per portare alla luce gas intrappolato negli strati rocciosi più profondi è una risorsa che aumenta la quita produttiva degli idrocarburi, sebbene in Italia sia inutile, dal momento che sul nostro territorio non c’è traccia della roccia in cui è presente il gas, gli scisti, argille tenere impregnate di idrocarburi. Le conseguenze di questa tecnologia estrattiva poi, sono tutt’altro che definite, e se ne cominciano a conoscere alcuni effetti negativi potenzialmente devastanti: negli Stati Uniti è stato notato un inquinamento delle falde acquifere nei punti in cui il fracking è stato messo in atto troppo in superficie, aumento del sollevamento e delle frane del terreno.

Il professor Vesnaver ha inoltre escluso che essa possa causare terremoti, parlando di bufala da smentire:

«I sismi nascono dove ci sono faglie attive. E dove ci sono faglie attive il petrolio viene fuori: come l’acqua da una bottiglia di vetro che va in frantumi. I terremoti e il petrolio, dunque, non possono coesistere».

Ricerca di petrolio tra i ghiacciai

A ciò occorre poi aggiungere che la sete di Petrolio rende conveniente anche lo scioglimento dei ghiacciai. Tanto che nel Polo Nord è già in corso da qualche anno la corsa ai giacimenti in Svezia e Norvegia, tra Russia e Nato. Inoltre, Obama aveva dato via libera a Shell per nuove trivellazioni in Alaska. Ciò conferma quanto il petrolio sia ancora una risorsa irrinunciabile…

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