Turchia, le grandi città voltano le spalle a Erdogan: cosa accadrà

Sussulto di democrazia in Turchia. Paese che sotto la guida di Recep Tayyp Erdogan sembra essere tornato all’Impero ottomano e all’era dei Sultani. Dopo la svolta modernista registrata a partire dagli anni ‘90, quando il paese mediorientale aveva avviato un processo di occidentalizzazione. Tanto che si è parlato, tra la fine degli anni ‘90 ed inizio 2000, di un suo ingresso nell’Unione europea.

Un passaggio sostenuto tra l’altro, anche da Silvio Berlusconi quando era Premier, in quanto riteneva che ciò avrebbe ulteriormente portato il paese turco verso l’Occidente e avrebbe ridimensionato istanze islamiste. In effetti il Cavaliere non aveva torto. E conferma quanto, almeno in politica estera, il fondatore di Mediaset ha avuto la stessa lungimiranza del suo mentore: Bettino Craxi.

Invece, da quando Erdogan è diventato Premier prima (2003-2014) e Presidente della Repubblica poi (2014 ad oggi), il paese ha abbandonato il proprio laicismo per riprendere una linea fondamentalista. Per non parlare della concentrazione di poteri che lo stesso Erdogan ha messo in atto a proprio favore. E cosa dire della marea di arresti di oppositori degli ultimi anni.

Ma la democrazia in Turchia è ancora viva. Tanto che alle ultime elezioni amministrative è arrivato un duro schiaffo al partito del Presidente in carica. Ecco le principali [sta_anchor id=”erdogan”]ragioni[/sta_anchor].

Risultato elezioni Turchia

Come riporta Agi, dati provvisori davano il fedelissimo del “sultano” in testa, sia pure di una manciata di voti. Ma Ekrem Imamoglu, il candidato del Chp, l’opposizione repubblicana che si rifà ai valori laici del padre della patria Mustafa Kemal Ataturk, aveva avvertito di essere in possesso di dati che dipingevano un quadro differente.

I dati provenienti dalle altre grandi città erano stati una doccia fredda per Erdogan, per quanto non si possa parlare di una disfatta giacché, a livello nazionale, l’Akp rimane sopra il 50%. La capitale Ankara, la regione del Canakkale ai confini con la Grecia, importanti centri costieri come Smirne, Mersin, Antalya, Adana e Hatay erano tutti finiti in mano ai kemalisti. L’Akp aveva continuato a prevalere nelle grandi distese rurali dell’Anatolia e nelle aree al confine con la Siria ma le regioni più economicamente sviluppate avevano voltato le spalle a un leader che sembrava avere saldamente in mano l’intero Paese, dopo le purghe ai danni di esercito, stampa e magistratura seguite al fallito golpe del 2016 e la riforma costituzionale che ha aumentato i poteri del presidente.

Restava solo Istanbul, la città della quale Erdogan fu sindaco, da dove partì la sua scalata al potere. Persa, pure quella.

Perchè Erdogan ha perso elezioni

La ragione principale della crisi di consensi di Erdogan sta di sicuro nella crisi economica attraversata da una nazione che, durante i suoi primi mandati come premier, aveva conosciuto ritmi di crescita eccellenti. Un benessere e una stabilità politica che molti elettori erano stati disposti a barattare con una stretta sulle libertà civili (a partire dalla repressione della stampa critica nei confronti del governo, con decine di giornalisti arrestati) e una progressiva islamizzazione di un Paese che nella secolarizzazione aveva avuto uno dei principi fondanti della propria identità nazionale.

La causa scatenante della crisi è stato il crollo della lira turca, che solo nel 2018 ha perso il 28% del proprio valore, portando l’inflazione al 20%. Un tonfo che ha avuto cause esogene, ovvero l’aumento dei tassi di interesse nei Paesi sviluppati, a partire dagli Stati Uniti, che ha portato gli operatori finanziari a spostare gli investimenti dalle nazioni emergenti, in cerca di rendimenti più vantaggiosi.

Erdogan, entrando spesso in conflitto con la banca centrale, arrivò ad attingere alle riserve in valuta estera per puntellare la moneta nazionale, senza risultati apprezzabili. Il calo dei consumi legato all’inflazione ha quindi portato la disoccupazione oltre il 10%, il 30% tra i giovani, e ha eroso i margini delle imprese non solo nei grandi poli economici come Istanbul ma anche nei tradizionali feudi dell’Akp, dove tanti piccoli imprenditori hanno rimesso in discussione la loro fedeltà al sultano.

E alla fine del 2018 è arrivata la recessione. Sia nel terzo che nel quarto trimestre il Pil turco ha registrato una variazione negativa su base trimestrale (-1,6% e -2,4%) e, nel caso del quarto trimestre, anche su base annuale (-3,1%). Dal 2002, l’anno in cui era salito al potere Erdogan, al 2012 il Pil era cresciuto in media del 5% all’anno, spiega a Linkiesta l’analista dell’Ispi Valeria Talbot, “poi ci sono stati alti e bassi ma nel 2017 la crescita è stata del 7,4%“.

“Però si trattava di una crescita trainata dal settore delle infrastrutture, non dalla produzione. Per questo quando lo Stato ha smesso di finanziare gli investimenti e in contemporanea sono arrivati i dazi degli Stati Uniti sui prodotti turchi, l’economia ha iniziato a rallentare”.

Poi ci sono le ragioni squisitamente politiche. In primis, riorganizzazione dell’opposizione, che ha saputo essere molto più competitiva. I repubblicani eredi del padre della Patria Ataturk, si sono impegnati al punto da dormire nei sacchi a pelo pur di evitare nuovi brogli.

Ma, soprattutto, al successo del Chp ha contribuito la frattura del fronte nazionalista. Ai tradizionalisti del Mhp, alleati di Erdogan, si è affiancata dall’anno scorso un’altra formazione, l’Iyi Party, di orientamento conservatore ma laico, che si è alleata con i kemalisti.

Poi occorre registrare la desistenza del partito curdo dell’Hdp che, al costo di vedere i propri voti scendere sotto il 4% dal precedente 10%, ha presentato propri candidati solo nelle regioni del Sud Est, loro tradizionale roccaforte, per chiedere in tutte le altre aree di sostenere l’alleanza Chp/Iyi. Nel timore di una stretta repressiva dopo le operazioni militari di Ankara contro i curdi di Siria.

Cosa succede ora in Turchia

Come riporta Contropiano, Erdogan, si è concentrato sulle prossime sfide che attendono il Paese:

Abbiamo di fronte un lungo periodo dove dovremo implementare le riforme economiche senza compromettere le regole del libero mercato. Inizieremo ad aggiustare i nostri errori a partire da domani mattina. Non combatteremo la nazione, altrimenti questo sarebbe fascismo. Soddisfare le nostre persone è più importante del nostro partito”.

Il primo punto da risolvere è sicuramente la crisi economica che colpisce il Paese. Un tema serio che ha inciso fortemente sul voto: in un anno la lira turca è scesa del 30%, l’economia è in recessione.

L’inflazione è vicina al 20%, la disoccupazione è in crescita. Di fronte a questi dati, sono apparse ridicole le dichiarazioni di questi mesi del presidente che ha attribuito i problemi della Turchia a presunti attacchi provenienti dall’Occidente. Può stare tranquillo Erdogan, non c’è stato e non c’è alcun complotto contro Ankara: ieri il suo Akp ha perso consensi soprattutto per la gestione scriteriata della questione economica.

Le elezioni di oggi sono storiche come quelle del 1994” ha twittato il giornalista turco Rusen Cakir, facendo riferimento all’anno in cui Erdogan divenne sindaco di Istanbul. “Quello che è successo ieri – ha affermato ancora Cakir, “è una dichiarazione che una pagina aperta 25 anni fa è stata girata”.

Chissà. Intanto la Turchia si prepara a vivere altri mesi di fortissima tensione. E, personalmente, ritengo che Erdogan debba rivedere la sua linea politica di matrice semi-dittatoriale. Oltre a frenare la crisi economica. Il primo campanello d’allarme per lui è suonato.

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